Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: l’ennesima denuncia di incostituzionalita’ della legge Fornero
La Corte Costituzionale, tramite la sentenza n.125 del 2022, ha inciso nuovamente sul secondo periodo dell’art. 18, c.7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori), già modificato dalla Legge Fornero, alla quale, nel tempo, sono state mosse più volte denunce di incostituzionalità.
L’ultima delle critiche, infatti, è arrivata dopo poco più di un anno dalla sentenza n. 59 del 1° aprile 2021, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di questa stessa norma nella parte in cui attribuiva al giudice la facoltà di disporre discrezionalmente la tutela reale “attenuata” in caso di riscontrata manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; ma andiamo per ordine.
La tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo fino a qualche anno fa era garantita dalla Legge n. 300 del 20 Maggio 1970, ovvero dallo Statuto dei Lavoratori, in particolare dal famoso articolo 18, recentemente modificato ad opera della Riforma Fornero (2012) e del Jobs Act (2014).
Per quanto concerne la prima importante modifica a questa disciplina, la Legge 92/2012 (c.d. Fornero) ha introdotto tutele differenti in base al tipo di illegittimità del licenziamento. Nello specifico si inizia a parlare di tutela reale piena, tutela reale limitata, tutela risarcitoria forte e tutela risarcitoria debole nonché di tutela obbligatoria, destinata quest’ultima alle imprese in cui lavorano fino a 15 dipendenti.
Come è noto, il licenziamento del lavoratore dipendente è possibile solo in presenza di specifiche motivazioni, che possono riguardare la condotta del lavoratore (licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) ovvero la situazione in cui si trovi l’azienda (licenziamento per giustificato motivo oggettivo).
Ai fini dell’analisi della sentenza in esame è bene soffermaci sull’ultima delle ipotesi considerate.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato, in base all’art. 3 della Legge 604 del 15/06/1966, da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Facendo riferimento all’art. 41 della Costituzione – che garantisce e tutela la libertà dell’iniziativa economica privata – il datore di lavoro può ricorrere a questa forma di licenziamento nel caso in cui la sopravvivenza della propria attività sia a rischio, oppure quando la specifica posizione occupata dal lavoratore non abbia più ragione di esistere nell’organico aziendale.
Ne consegue che questo tipo di licenziamento può essere intimato non soltanto in presenza di una crisi aziendale, ma anche quando la riorganizzazione dell’attività produttiva implica la riduzione della forza lavoro; infatti, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo si può ricorrere anche in caso di crisi aziendale, non rilevando se tale crisi è causata da condizioni economiche internazionali, nazionali o specifiche del settore.
Il licenziamento, inoltre, deve essere comunicato al lavoratore interessato in forma scritta, a pena di nullità, indicando i motivi che l’hanno causato. Invero, sulla base dell’art. 5 della Legge 604 del 1966, l’onere di provare la sussistenza dei motivi indicati nella lettera di licenziamento spetta al datore di lavoro, il quale deve altresì dimostrare che il lavoratore licenziato non può essere collocato diversamente, dunque l’impossibilità di adempiere al cosiddetto obbligo di “repêchage”.
Relativamente al caso in esame, poi, un giudice può solamente verificare la sussistenza e la fondatezza delle ragioni che hanno portato al licenziamento, ma non può mettere in discussione i metodi e i criteri usati dall’imprenditore nella gestione della propria attività economica.
La Corte Costituzionale, già con sentenza n.59 del 2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.18, settimo comma, secondo periodo, della Legge n.300/1970 (c.d. statuto dei lavoratori), come modificato dalla Legge n.92/2012 (c.d. Fornero), nella parte in cui prevede che il giudice, qualora accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può “altresì applicare” – invece che “applica altresì”- la disciplina di cui al medesimo art.18, quarto comma, concernente la reintegra del lavoratore dipendente nel posto di lavoro.
La denuncia di incostituzionalità, dunque, dipese dal fatto che la lettera della norma – introdotta con la riforma Fornero – attribuiva al giudice la facoltà di disporre, con ampia ed incondizionata discrezionalità, la “tutela reale c.d. attenuata” (cioè quella prevista dal comma 4, dell’art. 18) nel caso in cui avesse ritenuto manifestamente insussistente il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; in altre parole, la norma in discussione rese facoltativa (e non più obbligatoria) la tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo.
La Corte Costituzionale, nello specifico, nello svolgimento della sua più importante funzione, osservava che il carattere meramente facoltativo della reintegrazione era indice di una disarmonia interna al sistema (delineato dalla legge n. 92 del 2012), la quale andava a ledere il principio di eguaglianza.
Come affermato in premessa, a poco più di un anno di distanza dalla celebre pronuncia su menzionata, è ricominciata la riscrittura costituzionale della disciplina in esame; infatti, tramite la sentenza n.125 del 2022, è stata fatta chiarezza su un’ulteriore censura di incostituzionalità del discusso articolo 18.
Anche questa volta la critica riguarda una particella normativa ben precisa, ossia quella che identifica nella “manifesta” insussistenza del fatto (posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo) il presupposto per consentire al giudice di disporre la reintegrazione nel posto di lavoro.
Per contro, l’ultima parte del comma 7, per le “altre ipotesi” individua la sanzione della tutela meramente indennitaria di cui al comma 5.
Dunque, stante la differente tutela approntata dall’ordinamento, è lapalissiano che la lettera della norma non risponde a canoni di uguaglianza e ragionevolezza, essendoci una differenza tra le dizioni di “manifesta insussistenza del fatto” e di “mero fatto insussistente” la quale però non trova alcuna giustificazione.
In particolare, il legislatore del 2012, nello scegliere discrezionalmente il tipo di garanzia a favore del lavoratore, tramite l’introduzione del criterio della manifesta insussistenza, ha erroneamente violato i su menzionati principi, ai quali doveva restare vincolato nell’esercizio dei suoi poteri. Proprio per tale motivo si dice che la particella normativa in discussione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale; nello specifico, ad essere coinvolto è l’art.3 della Costituzione: infatti, i vari dibattiti in materia hanno ad oggetto il perché dovrebbe essere giustificato un trattamento diversificato in fattispecie omogenee.
Riassumendo, in caso di insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, per disporre la reintegra occorre un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della “manifesta” insussistenza del fatto stesso; in altre parole, l’assenza dei presupposti di legittimità del recesso deve essere chiara, evidente e facilmente verificabile, di modo che lo stesso risulti palesemente pretestuoso; infatti, l’ insussistenza deve porsi come “manifesta”, ossia, contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento.
Ciò che – tra le altre cose – è stato criticato, è l’ampliamento a dismisura della valutazione discrezionale del giudice: infatti, mancano parametri obiettivi di riferimento che permettono di stabilire quando ricorre il requisito della “manifesta insussistenza” del fatto.
Specificatamente, ciò che la Corte Costituzionale sottolinea negativamente non è la discrezionalità della valutazione giudiziale in sé, la quale rimane necessaria, ma il fatto che la discrezionalità stessa non sia indirizzata da parametri attendibili e coerenti.
Non a caso, il passaggio motivazionale più rilevante nella sentenza oggetto del nostro esame è il seguente : «Il criterio della manifesta insussistenza del fatto è indeterminato, non permette di essere distinto verso il confine interiore rispetto alla insussistenza “semplice”, non permette una omogeneità di applicazione tra casi analoghi, non si comprende cosa significhi esattamente ed anzi, inteso secondo il diritto vivente, appare illogico e non in linea con la logica probatoria propria sia del processo civile che di quello del lavoro».
Dunque, possiamo concludere affermando che, lungi dal perseguire la finalità di un’equa distribuzione delle tutele nei confronti del lavoratore dipendente, dall’introduzione – ad opera della Legge Fornero – della particella normativa “manifesta” è semplicemente derivato un aggravamento processuale, dal momento che il disvalore del licenziamento non aumenta nel caso di manifesta insussistenza del fatto. Di fatti, la necessità che il fatto posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo sia non solo insussistente ma anche “manifestamente” insussistente rappresenta un illegittimo bilanciamento tra i valori in gioco delle due parti del rapporto.
Per i motivi su esposti, la scelta di subordinare la reintegra nelle ipotesi di “fatto insussistente” ad ulteriori, vaghi e discrezionali elementi che nulla aggiungono al disvalore della fattispecie estintiva è stata, come abbiamo visto, fortemente criticata dalla Corte Costituzionale.
Dott.ssa Giovanna Vetere